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Demenza frontotemporale: Brescia al centro del confronto tra ricerca, clinica e istituzioni

Scritto da Fatebenefratelli | 20 ottobre 2025

Il 4 ottobre il Salone Morstabilini del Centro Congressi Paolo VI di Brescia ha ospitato il convegno “Demenza frontotemporale: riconoscere, curare e accompagnare”, promosso dall’IRCCS Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli con il patrocinio dell’Ordine dei Medici di Brescia. Un appuntamento che ha raccolto voci autorevoli del mondo scientifico e clinico, ma anche rappresentanti delle istituzioni locali e nazionali, segno che la sfida della demenza frontotemporale non è solo un tema medico, ma riguarda l’intera società.

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I saluti istituzionali: un mosaico di responsabilità condivise

La mattinata si è aperta con i saluti delle istituzioni, che hanno restituito un quadro chiaro della complessità del problema e della volontà di affrontarlo insieme. Maria Novella Luciani, dirigente del Ministero dell’Economia e delle Finanze, ha inviato un videomessaggio nel quale ha sottolineato l’urgenza di fare rete. Ha parlato di questa malattia come di una “epidemia silente”, che cresce senza far rumore e che spesso non viene riconosciuta nei tempi giusti. Ha ringraziato il lavoro dei ricercatori e dei clinici, richiamando la necessità di un approccio che unisca ricerca, assistenza e divulgazione. Il suo messaggio ha toccato un punto cruciale: senza diagnosi precoce e senza cultura diffusa, il rischio è che la demenza frontotemporale resti invisibile troppo a lungo. L’Assessora all’Istruzione, Formazione e Lavoro della Regione Lombardia, Simona Tironi, collegata da remoto, ha posto l’accento sulla formazione continua degli operatori sanitari e sociosanitari. Per riconoscere tempestivamente una malattia così complessa non basta la buona volontà: servono competenze specialistiche aggiornate e strumenti di supporto. Ha voluto inoltre rivolgere un pensiero ai caregiver, ricordando quanto sia difficile affrontare da soli cambiamenti che stravolgono la quotidianità familiare. Regione Lombardia, ha assicurato, continuerà a sostenere ricerca, formazione e percorsi di presa in carico, “perché nessuno debba sentirsi abbandonato”. Il punto di vista del territorio è arrivato con Raisa Labaran, in rappresentanza della Sindaca di Brescia, Laura Castelletti. Nel suo intervento ha sottolineato il ruolo del Comune nel contrastare lo stigma e nel promuovere una cultura dell’accoglienza. Ha ricordato come Brescia abbia aderito alla rete delle Città Amiche della Demenza e alla rete internazionale Città Sane OMS. Sono scelte che non cambiano dall’oggi al domani la vita dei cittadini, ma indicano una direzione precisa: creare contesti urbani più inclusivi, capaci di offrire sostegno non solo clinico ma anche sociale alle persone con demenza e alle loro famiglie.

Il Direttore Generale dell’IRCCS Fatebenefratelli, Renzo Baldo, ha rimarcato la necessità di costruire ponti tra ricerca, clinica e politiche pubbliche. Ha sottolineato come la formazione rappresenti un elemento irrinunciabile, perché la qualità della cura dipende anche dalla qualità della conoscenza. Ha ringraziato i ricercatori e gli operatori che ogni giorno lavorano con passione, ma anche gli sponsor che rendono possibili momenti di confronto come questo.

La Direttrice Scientifica dell’IRCCS, Roberta Ghidoni, ha chiuso i saluti istituzionali spiegando il senso della giornata. La data non è casuale: cade nella settimana dedicata a livello mondiale alla consapevolezza sulla demenza frontotemporale e segue di poco la presentazione in Senato di una proposta per istituire una Giornata nazionale dedicata a questa malattia. Un segno di come la scienza e le istituzioni stiano iniziando a convergere. Ghidoni ha anche presentato i temi della giornata: dagli studi genetici agli aspetti clinici, dalle nuove terapie alle questioni legali e sociali. Con un filo conduttore chiaro: riconoscere la demenza frontotemporale presto, accompagnare i pazienti e sostenere chi se ne prende cura.



Un messaggio comune

Questi interventi introduttivi, pur diversi per prospettiva, hanno costruito un mosaico coerente. Da Roma a Milano, da Regione Lombardia al Comune di Brescia, dal livello politico a quello scientifico, il messaggio è stato uno: la demenza frontotemporale non è un destino privato ma una sfida collettiva. Per affrontarla servono ricerca e innovazione, ma anche formazione, servizi sociali, reti di comunità e un’attenzione costante alle famiglie. È con questo spirito che si sono poi aperti i lavori scientifici della giornata, confermando che solo unendo le forze è possibile dare risposte concrete a chi vive la fragilità.

 

Una malattia ancora poco conosciuta

La demenza frontotemporale non è la forma più diffusa di demenza – l’Alzheimer resta la più comune – ma ha caratteristiche che la rendono particolarmente difficile da affrontare. Colpisce persone in età ancora giovane, spesso tra i 50 e i 65 anni, quando sono ancora attive nel lavoro e nella vita familiare. I sintomi iniziali non riguardano tanto la memoria, quanto piuttosto il comportamento e il linguaggio: improvvisa apatia, perdita di inibizione, cambiamenti di personalità, rigidità mentale, difficoltà di parola. Per questo motivo la diagnosi è spesso tardiva o errata: la malattia può essere confusa con depressione o disturbi psichiatrici, lasciando famiglie e medici disorientati. Gli esperti al convegno hanno sottolineato come dietro i numeri ci siano vite che cambiano radicalmente: coppie che devono reinventare il proprio equilibrio, figli giovani che diventano caregiver, reti sociali che spesso non sono pronte ad accogliere fragilità di questo tipo.

 

La ricerca che apre strade nuove

La sessione scientifica del convegno è stata il cuore pulsante della giornata. Da prospettive diverse, i relatori hanno mostrato quanto la ricerca sulla demenza frontotemporale stia evolvendo, intrecciando biologia, clinica e strumenti di cura innovativi.

Maria Grazia Spillantini, neuroscienziata dell’Università di Cambridge e tra le più autorevoli studiose a livello internazionale, ha aperto i lavori illustrando i progressi nello studio della proteina Tau, una delle principali responsabili della degenerazione dei neuroni. Con un linguaggio semplice, ha spiegato che la Tau, quando si altera, perde la capacità di stabilizzare i microtubuli – le strutture che permettono alle cellule nervose di comunicare tra loro – e tende ad aggregarsi, compromettendo la funzionalità del cervello. Comprendere come e quando questo accade è la chiave per costruire terapie in grado di intervenire prima che il danno sia irreversibile.

A seguire, Roberta Ghidoni, Direttrice Scientifica dell’IRCCS Centro San Giovanni di Dio Fatebenefratelli, ha presentato i risultati dei laboratori di Brescia, che da anni rappresentano un punto di riferimento internazionale nella genetica delle demenze. Le sue parole hanno dato concretezza a ciò che la ricerca significa per i pazienti: Non studiamo soltanto i geni: studiamo le storie delle famiglie”. Alcune forme di demenza frontotemporale, ha spiegato, sono ereditarie e legate a mutazioni specifiche, come quelle dei geni MAPT, GRN e C9orf72. In particolare, il centro di Brescia ha messo a punto un test innovativo per misurare nel sangue la progranulina, una proteina che, se carente, è indice di una mutazione nel gene GRN. Questo biomarcatore consente di individuare la malattia in una fase presintomatica, aprendo la strada a trial terapeutici personalizzati.

Una prospettiva originale è stata offerta da Raffaella Lara Migliaccio del Paris Brain Institute, che ha introdotto un approccio clinico “ecologico”. Nei suoi studi, i pazienti vengono osservati non in ambienti asettici di laboratorio, ma in contesti di vita quotidiana, come un salotto o una sala d’attesa. L’obiettivo è registrare reazioni spontanee, gesti e microcomportamenti che rivelano precocemente la perdita di inibizione o la riduzione dell’empatia, due segnali tipici della demenza frontotemporale. Un modo diverso di guardare la malattia, più vicino alla realtà del paziente e più utile per capire come supportarlo nella vita di tutti i giorni.

Il professor Alessandro Padovani, direttore della Clinica Neurologica dell’Università di Brescia, ha posto l’attenzione sulla necessità di tradurre la ricerca in percorsi di cura concreti. Ha illustrato come la Regione Lombardia stia lavorando all’aggiornamento dei PDTA – i Percorsi Diagnostico-Terapeutici Assistenziali – per migliorare la presa in carico delle persone con demenza. Tuttavia, ha ricordato le criticità strutturali che ancora ostacolano il sistema: la carenza di medici di medicina generale, l’eterogeneità dei servizi territoriali e le disuguaglianze di accesso alle cure. “Serve un investimento non solo economico, ma culturale – ha detto – perché la diagnosi precoce non è un atto medico, è un diritto.”

Francesca Baglio (Fondazione Don Carlo Gnocchi) ha raccontato il progetto DancerX, un programma di terapia digitale che unisce neuroscienze e tecnologia. Utilizzando sensori di movimento, realtà virtuale e stimoli musicali, i pazienti vengono coinvolti in attività che stimolano la memoria, l’attenzione e la socialità. “Non parliamo di giochi tecnologici – ha precisato – ma di strumenti clinici validati, che restituiscono dignità e partecipazione a chi vive la malattia”. Una nuova frontiera della riabilitazione cognitiva, capace di portare la cura anche dentro le mura domestiche.

Infine, Barbara Borroni, Professore Associato di Neurologia dell’Università di Brescia e Direttrice della struttura complessa “Riabilitazione del decadimento cognitivo e demenze” dell’IRCCS Fatebenefratelli, ha affrontato il tema più atteso: le terapie farmacologiche in sviluppo. Oggi non esistono ancora farmaci in grado di arrestare la malattia, ma la ricerca sta compiendo passi importanti. I trial più promettenti riguardano proprio le forme genetiche della demenza frontotemporale, in particolare quelle legate a mutazioni del gene GRN. Alcune molecole in fase di sperimentazione agiscono stimolando la produzione di progranulina, con risultati incoraggianti sulla stabilizzazione dei sintomi. 

 

La seconda sessione: dialogo tra psichiatria, neurologia e società

Il pomeriggio ha approfondito la dimensione clinica e sociale della demenza frontotemporale, con uno sguardo incrociato tra psichiatria, neurologia, caregiver e aspetti legali.

Il punto di vista dello psichiatra è stato affidato a Stefano Barlati (Associato di Psichiatria all'Università di Brescia), che ha descritto le difficoltà diagnostiche della variante comportamentale della demenza frontotemporale. Spesso, ha spiegato, i sintomi iniziali – disinibizione, apatia, rigidità mentale, disturbi dell’alimentazione o della personalità – vengono confusi con patologie psichiatriche come depressione, disturbo bipolare o schizofrenia. Non a caso, molti pazienti ricevono inizialmente una diagnosi psichiatrica, con ritardi diagnostici anche di anni nel riconoscimento corretto della malattia. Lo psichiatra, ha sottolineato Barlati, è spesso il primo specialista a incontrare questi pazienti, e deve perciò affinare la capacità di distinguere un esordio psichiatrico da un quadro neurodegenerativo. Servono anamnesi accurate, scale cliniche standardizzate, collaborazione con i neurologi e soprattutto formazione continua. Quanto ai trattamenti, non esistono farmaci “in etichetta”: si usano strategie sintomatiche – antidepressivi, stabilizzatori dell’umore, antipsicotici – con risultati parziali e spesso off-label. Fondamentale il sostegno ai caregiver, la psicoeducazione e l’intervento multidisciplinare.

Il punto di vista del neurologo, affidato a Stefano Mozzetta, ha ribadito la difficoltà del confine tra disturbo psichiatrico e demenza frontotemporale. L’apatia, le stereotipie e la compulsività possono sembrare segni di depressione o disturbo ossessivo-compulsivo, mentre in realtà sono indicatori di neurodegenerazione. Mozzetta ha mostrato come neuroimaging avanzato (PET, risonanza) e biomarcatori (come i neurofilamenti) possano aiutare nella diagnosi differenziale, ma ha ammonito: nessun singolo test è risolutivo. L’elemento decisivo resta l’osservazione della progressione nel tempo: se i sintomi peggiorano, siamo di fronte a una patologia neurodegenerativa. Ha inoltre descritto i quadri che mimano la demenza frontotemporale senza progressione neurodegenerativa, che in realtà nascondono disturbi psichiatrici primari. Da qui l’importanza di un approccio integrato: neurologi e psichiatri devono lavorare fianco a fianco per evitare errori e garantire diagnosi più tempestive.

Maria Cotelli, neuropsicologa dell’IRCCS Fatebenefratelli, ha spostato l’attenzione sul peso dei caregiver. Presentando anche i dati più recenti dell’Istituto Superiore di Sanità, ha mostrato come quattro caregiver su dieci sviluppino una patologia cronica a causa dello stress assistenziale, con un impatto maggiore sulle donne, spesso giovani e costrette a rinunciare a cure e lavoro. L’apatia e la perdita di empatia del paziente sono tra i sintomi più gravosi da sostenere, perché trasformano radicalmente le relazioni familiari. Cotelli ha raccontato anche il progetto Mainstream, che unisce tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva e logopedia, con il coinvolgimento diretto dei caregiver come parte attiva del percorso terapeutico. “Prendersi cura del caregiver – ha ricordato – significa prendersi cura anche del paziente.”

Infine, Laura Invernizzi, avvocata e vicepresidente AIMFT, ha portato la prospettiva legale. Ha raccontato con esempi concreti le difficoltà delle famiglie: dal riconoscimento dell’invalidità civile (spesso negata ai pazienti sotto i 65 anni) alle complicazioni lavorative, fino alle questioni legate alla capacità di agire e alla gestione del patrimonio. Invernizzi ha ricordato come la perdita di consapevolezza e di autocontrollo esponga i pazienti a rischi anche giuridici, ad esempio nell’ambito economico o in comportamenti socialmente inappropriati. Per questo servono strumenti di tutela adeguati e un confronto costante tra medici e giuristi. L’intera giornata ha confermato come Brescia sia oggi un centro di riferimento non solo per la ricerca scientifica, ma anche per il dialogo culturale e istituzionale sulla demenza frontotemporale.

A chiudere i lavori, le parole importanti di Roberta Ghidoni “Ogni progresso scientifico ha valore solo se diventa vicinanza, ascolto, accompagnamento. La ricerca non è un traguardo, ma un cammino che si compie insieme ai pazienti e alle loro famiglie” e i ringraziamenti di Barbara Borroni che ha anche riassunto lo spirito della giornata: “Non abbiamo ancora la cura, ma oggi abbiamo le conoscenze per costruirla. E questo cambia tutto: perché significa restituire speranza, dignità e prospettiva a chi vive la fragilità.”

Messaggi che racchiudono l’essenza del convegno: unire la forza della scienza al valore dell’umanità, per continuare a trasformare la conoscenza in cura.

L’evento è stato realizzato anche grazie al contributo non condizionato di Aviado Bio, Denali, Takeda e Alector, aziende che hanno sostenuto la giornata nel pieno rispetto dell’indipendenza scientifica e dei principi di integrità della ricerca.

 

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