Abbiamo approfondito questo tema con il dott. Giovanni Cervellera, Coordinatore del Servizio di Attenzione Spirituale e Religiosa, Responsabile Ufficio Formazione e Referente Ufficio Tirocinanti presso il Centro Sant’Ambrogio Fatebenefratelli di Cernusco sul Naviglio, che da oltre trent’anni porta avanti con passione e dedizione questo approccio.
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«In questi 33 anni abbiamo costruito percorsi che hanno un obiettivo chiaro: far sì che la dimensione spirituale entri a pieno titolo nei criteri di riabilitazione psichiatrica».
Questa scelta non nasce solo da una convinzione personale, ma da un percorso condiviso all’interno della Provincia Lombardo Veneta, che ha promosso negli ultimi decenni numerosi corsi di formazione. «Abbiamo formato assistenti spirituali qualificati, ma anche operatori sanitari – medici, psicologi, educatori, infermieri – perché la spiritualità non resti confinata a un servizio specifico, ma diventi parte del lavoro di tutta l’équipe».
La letteratura scientifica (Koenig et al., 2012; Fassino et al., 2008) conferma ciò che l’esperienza clinica di Giovanni Cervellera racconta: spiritualità e riabilitazione psichiatrica, insieme, aiutano a rafforzare la fiducia, migliorare le terapie e restituire dignità e speranza ai pazienti. «E sappiamo bene – spiega Cervellera – che il benessere interiore influisce sulle terapie, anche farmacologiche. Ci sono ricerche che mostrano come l’efficacia dei farmaci possa dipendere fino al 50% dallo stato d’animo del paziente. Per questo non si tratta di dare un supporto solo a chi si dichiara credente: la spiritualità ha un valore terapeutico in sé».
Accanto al valore intrinseco dell’esperienza religiosa o spirituale, il suo inserimento nei percorsi psichiatrici permette di «incarnarsi» nel dinamismo terapeutico. «Nella formazione – racconta – forniamo criteri e strumenti che permettono agli assistenti spirituali di dialogare con gli altri professionisti sanitari. Solo così la spiritualità diventa parte integrante della cura».
Per integrare questa dimensione, al momento dell’ingresso nelle strutture viene proposto un questionario che indaga lo stato d’animo, il livello di spiritualità e i desideri del paziente. «Non raccogliamo dati sensibili – chiarisce Cervellera – ma informazioni che ci aiutano a calibrare meglio gli interventi, individuali o di gruppo. In realtà, ciò che spesso risulta più prezioso non sono le risposte scritte, ma il dialogo che si apre durante la compilazione».
Un altro riferimento importante è il lavoro della dottoressa Christina Puchalski, che ha elaborato criteri per valutare la spiritualità dei pazienti nelle cure palliative. «Noi li abbiamo adattati al contesto psichiatrico: chiediamo come la persona percepisce sé stessa, gli altri, la natura, Dio o un essere soprannaturale, la morte, i valori fondamentali. Sono domande che fanno emergere il mondo interiore e aprono a un percorso di accompagnamento».
Gli interventi possono essere sia personalizzati che collettivi. «Decidiamo insieme all’équipe cosa sia più utile per quella persona. A volte un gruppo di riflessione è la scelta migliore, altre volte un colloquio individuale. Abbiamo utilizzato strumenti diversi: letteratura, filosofia, Bibbia, musica. Tutto ciò che può stimolare la dimensione interiore ha un valore».
Cervellera ricorda alcuni percorsi fatti in collaborazione con psicologi: «Abbiamo lavorato con persone che sentivano voci. In certi casi siamo riusciti ad attenuarne l’impatto, aiutando il paziente a riconoscere quella dimensione come reale per lui ma non condivisa dagli altri, favorendo così una convivenza meno dolorosa con il sintomo».
Uno degli aspetti più importanti è la formazione. «Abbiamo promosso corsi di alta formazione con l’Università Cattolica di Brescia, e ci siamo formati anche con l’Ufficio per la Pastorale della Salute della CEI. Durante la pandemia si sono moltiplicati i corsi online, a cui hanno partecipato anche i nostri psichiatri».
L’attenzione non è mai stata rivolta solo agli assistenti spirituali: «Abbiamo sempre voluto estendere la formazione a tutta l’équipe psichiatrica. La risposta più numerosa è arrivata dagli educatori, ma anche medici, psicologi e infermieri hanno partecipato. Ora stiamo ripartendo con un nuovo corso dedicato proprio a “Riabilitazione psichiatrica e spiritualità”».
Che cos’è la spiritualità? «Potremmo dire – spiega Cervellera – che è tutto ciò che non è materiale, il nostro mondo interiore. A me piace pensarla come il luogo delle domande. La religione, invece, offre delle risposte, attraverso riti e pratiche. Entrambe sono fondamentali».
La spiritualità, però, richiede libertà: «Non deve essere una gabbia, ma uno spazio aperto in cui porsi domande. Il rischio è cadere in una spiritualità confusa, senza confini. Per questo servono punti di riferimento: la filosofia, l’arte, e anche i testi religiosi, come il Vangelo, che costituiscono un patrimonio universale, valido non solo per i credenti».
Uno degli elementi cardine è l’ascolto. «Spesso i pazienti dicono: nessuno mi ascolta. Eppure l’ascolto è già terapia. C’è anche un riconoscimento normativo: la legge sulle disposizioni anticipate di trattamento afferma che il tempo di ascolto è tempo di cura. Non ascolto perché devo intervenire, ma perché quello è già un intervento».
Ascoltare significa anche costruire fiducia. «Molti pazienti con lunga storia di sofferenza psichica hanno visto tradita la loro fiducia. Noi dobbiamo restituirgliela. Quando dici a una persona “ti ascolto, sono qui per te”, restituisci dignità. Ma devi essere coerente: non puoi interrompere un percorso senza spiegazioni, altrimenti rischi di tradirli di nuovo».
Cervellera ha raccolto episodi che testimoniano la forza di questo approccio. «Un giorno, durante un incontro di gruppo, ho chiesto di riflettere sulla parola “Dio”. Un ragazzo molto disorientato ha riorganizzato le lettere e ha detto: “Ieri, Oggi, Domani: in Dio c’è tutto il tempo”. Un’affermazione brillante, che dimostra come anche chi vive situazioni di grave sofferenza psichiatrica esprima intuizioni profonde».
Un altro insegnamento fondamentale è la semplicità: «in questi trent’anni, ho imparato che le grandi verità spesso emergono non dai discorsi complessi, ma dalle parole semplici e autentiche dei pazienti».
L’esperienza del dott. Giovanni Cervellera mostra come la spiritualità, nella riabilitazione psichiatrica, non sia un accessorio, ma una risorsa essenziale. Non si tratta di un sostegno religioso per chi crede, ma di un luogo di domande, ascolto e fiducia che accompagna la persona nel suo percorso di cura.
Attraverso strumenti concreti – questionari, attività espressive, gruppi di riflessione – e grazie a una formazione diffusa che coinvolge tutte le figure sanitarie, la spiritualità si integra nei percorsi terapeutici diventando parte della terapia stessa. È in questa dimensione che i pazienti, anche nelle fragilità più profonde, riescono a esprimere intuizioni luminose e a ritrovare la propria dignità.
Come ricorda Cervellera, la lezione più grande viene proprio dai pazienti: la loro capacità di adattamento e la forza che trovano nella semplicità delle relazioni, ci insegnano che la felicità è possibile anche in condizioni difficili.
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