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"Nella tempesta": la vittoria di fra Serafino contro il Coronavirus

Costante Acernozzi, fra Serafino dei Fatebenefratelli, ha vissuto sulla sua pelle l’esperienza del Covid-19, passando dalla Terapia Intensiva alla Riabilitazione: “Mentre ero sedato, avvertivo, vicino a me, la presenza di Dio e ciò mi infondeva pace e serenità. Sono grato a chi mi ha curato ed a chi ha pregato per me”.

Leggi la sua lettera dopo aver sconfitto il virus.

 

La lettera di fra Serafino: la testimonianza della malattia

Come tutti gli Italiani, prima ancora di imparare a camminare e giocare, ho frequentato l’Oratorio Parrocchiale: diventato un giovane attivo nell’Azione Cattolica, la mamma mi portava a visitare gli anziani, a regalare loro qualche dono, presso la Casa di Riposo “Santa Chiara”, all’Ospedale Maggiore, e al “Fissiraga”, allora gestito dai Fatebenefratelli, a Lodi. Divenni così un Fatebenefratello.

Un giorno improvvisamente è comparsa una febbre persistente fino al peggioramento dei sintomi. Il Medico di Base chiama il Centro Sanitario informativo per il Covid-19, appositamente istituito: arriva l’ambulanza della Croce Rossa, che mi conduce al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Stradella (PV), per essere poi trasferito al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Voghera (PV).

Vengo, infine, trasferito al Centro Specializzato di Varzi (PV), per la Terapia Intensiva, mentre per la Riabilitazione, su richiesta dei miei Superiori, vengo condotto all’Ospedale Sacra Famiglia di Erba, gestito dai Fatebenefratelli.

Di Ospedali me ne intendo: dopo il rientro dalla mia missione, infatti, in questo Ospedale è la quinta volta che vengo assistito e curato, dopo aver subito quattro interventi chirurgici, ma mai una prova tanto sconvolgente si era abbattuta su di me! Riprendendo l’immagine evangelica proposta dal Papa, è come se una tempesta improvvisa, il Coronavirus, si fosse abbattuta su di noi, sconvolgendo le nostre vite. Quando si è nella tempesta, non si ha il tempo di rielaborare tali pensieri: a chi, o a che cosa, aggrapparsi, per non soccombere?

Nella mia “tempesta”, questa domanda ha avuto una risposta chiara: potevo confidare in Gesù e nella Sua misericordia, e in diverse forme, questa consapevolezza mi ha sostenuto nelle diverse fasi del ricovero. Durante la Terapia Intensiva, ho vissuto una sorta di “sogno”, che ricordo ancora oggi, il quale mi ha accompagnato per molti giorni, facendomi credere fosse reale ciò che vivevo, che stava realmente accadendo.

Mentre le persone attorno a me morivano, il tutto era avvolto dal senso della presenza di Dio, nonostante coloro che morivano non potessero ottenere il Sacramento dell’Unzione dei malati, che avrebbe conferito ad ogni cosa una dimensione di piace e serenità. Questa pace mi ha accompagnato sempre, mentre sperimentavo il conforto di avere, per alcuni giorni, un Confratello o una Suora come compagni di camera, godendo della vicinanza premurosa (ovviamente non fisica, dato che nessuno poteva accedere al Reparto del Coronavirus, neppure il Cappellano o il Parroco).

Non posso attribuire a me stesso la capacità di questo sereno affidamento alla Divina misericordia. Persino gli Apostoli, nell’ora della prova, si furono lamentati: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?” (Mc 4-38), e la mia fede non è certo migliore della loro. Attribuisco, piuttosto, questo dono alle tante persone che hanno pregato per me: dai miei Confratelli al Cappellano, dalle Suore agli ospiti, dai Collaboratori del Centro ai fedeli della mia Parrocchia di origine, S. Rocco in Borgo d’Adda, in Lodi, in cui si venera la Madonna di Lourdes.

I protagonisti di questa preghiera si sono rivelati solo verso la fine del ricovero, quando erano certi di non disturbare: ma il sottoscritto, da subito, ha sentito il beneficio della loro vicinanza. Sono consapevole di avere un debito di gratitudine verso il personale sanitario - medici, infermieri, ausiliari - i quali con competenza, dedizione ed umana sensibilità mi hanno curato.

Anche i moderni mezzi di comunicazione sociali li hanno definiti “Eroi”: è davvero singolare che, solo in queste circostanze, ci si renda conto del bene che essi svolgono da anni, giorno dopo giorno, al servizio dei più deboli, senza nulla pretendere per sé. Anche questo è un “segno” della bontà di Dio, il quale, nonostante le nostre freddezze, mantiene vivo nel cuore il sentimento della compassione ed il desiderio di aiutare chi versa in condizione di bisogno.

La vita è cambiata di molto in poco tempo: i ritmi, ora, si sono rallentati ed accompagnati dalla fatica, ma è sempre grande il desiderio di riprendere in mano le fila dell’esistenza, come già in parte, si sta facendo. Oso sperare che tanti giovani, uomini e donne, si impegnino al servizio del malato e che possano anche, in un prossimo futuro, per gli ammalati.

Il mio desiderio, salute permettendo, è di tornare ancora a fare il volontario in qualche comunità del Centro, per poter aiutare, nei piccoli gesti quotidiani, come il cibarsi, qualche nostro ospite storico per degenza, in grande difficoltà di autonomia.

fra Serafino

Ci dedichiamo per missione ai malati e ai bisognosi coniugando l’attenzione al corpo e allo spirito nel rispetto della persona e della sua individualità.
Attraverso la promozione delle opere portiamo il Vangelo nel mondo della sofferenza e del dolore affiancando il paziente come professionisti della salute.

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