“Quando si riesce a sentire le frontiere come mortali –nel senso di transeunti, periture come gli uomini, relative – si ha un rapporto umano con esse e con tutti coloro che vivono loro intorno. Se le si crede eterne, sacre, idoli da adorare, diventano mortali nel senso che chiamano, causano, esigono la morte …. le terre di frontiere rappresentano un laboratorio dove nasce la poesia, teatro di un dialogo inteso a trasformare in incontro e arricchimento reciproco fermenti vitali ma anche pericolosamente aggressivi”.
(Claudio Magris: Corriere della Sera, 28 giugno 2009)
Nelle parole di Claudio Magris, le frontiere sono luoghi in cui si incrociano forze vitali e contraddittorie, laboratori umani nei quali l’incontro diventa possibile, anche se difficile. È proprio questo lo scenario in cui si muove chi si prende cura delle persone affette da demenza, e in particolare dalla malattia di Alzheimer. Una condizione complessa, cronica e progressiva, che mina progressivamente le capacità cognitive, gettando chi ne è colpito, e i loro familiari, in un territorio incerto, fragile, al limite tra la medicina e la vita quotidiana.
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La malattia di Alzheimer è, a tutti gli effetti, una malattia postmoderna. Non solo per la sua diffusione globale (secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, oltre 55 milioni di persone vivono con una forma di demenza (clicca qui per scoprire i numeri in Italia)), ma soprattutto per i dilemmi clinici, etici e sociali che solleva. Non è solo una condizione medica: è un luogo di confine in cui si intrecciano diagnosi, relazioni familiari, risorse sanitarie e decisioni difficili.
In assenza di linee guida chiare e univoche, molte decisioni cruciali sono affidate alla "scienza e coscienza" degli operatori sanitari: trattare o meno una complicanza in fase avanzata? Continuare o sospendere i farmaci? Fino a che punto è giusto procedere con esami diagnostici invasivi? Comunicare o meno la diagnosi?
Queste domande non trovano risposta nei protocolli, ma nell’ascolto, nella relazione, nel dialogo. Ed è qui che entra in gioco l’arte della medicina, intesa non solo come tecnica, ma come presenza umana.
Essere accanto a chi soffre di Alzheimer è un compito molto sfidante. Abbiamo scritto una guida per supportare tutti coloro che hanno esperienza diretta della malattia e dei suoi sintomi, iniziali e finali. Scaricala cliccando il bottone qui sotto.
Oggi la medicina non può più essere autoreferenziale. Deve dialogare con i pazienti, con le loro famiglie e con la società. Deve riconoscere che il processo di cura è un atto condiviso, che si costruisce nella relazione e nel rispetto della dignità della persona, anche quando le sue facoltà cognitive sono compromesse.
Prendersi cura significa accompagnare, ascoltare, sostenere. Significa riconoscere il malato non solo come destinatario di cure, ma come protagonista, nei limiti delle sue possibilità, del proprio percorso terapeutico.
Uno degli strumenti più efficaci per affrontare l’Alzheimer è la diagnosi precoce. Riconoscere i sintomi iniziali e intervenire in modo tempestivo consente non solo un migliore trattamento farmacologico, ma anche la costruzione di un’alleanza terapeutica tra medico, paziente e familiari.
Questa alleanza è la chiave per affrontare, con rispetto e realismo, le scelte che la malattia impone. Essa permette di pianificare le cure, di anticipare decisioni difficili, di valorizzare il vissuto del paziente anche attraverso strumenti come le direttive anticipate.
Di fronte a malattie complesse come l’Alzheimer, i principi etici universali restano il riferimento imprescindibile:
Applicare questi principi nel caso di pazienti affetti da demenza richiede grande sensibilità e competenza. Soprattutto nella fase avanzata, dove la comunicazione si fa difficile e il rischio di esclusione è alto.
Guardare alla demenza come a una vera malattia significa riconoscere che le persone affette da Alzheimer hanno diritto a cure adeguate. Tentare di "demedicalizzare" le fasi avanzate, riducendole a un semplice accompagnamento sociale, è un errore pericoloso. La cura richiede risorse, competenze, rispetto. Ridurre l’intervento medico significa, spesso, abbandonare il paziente e la sua famiglia.
Allo stesso tempo, va combattuto lo stigma che ancora accompagna la diagnosi: troppo spesso chi riceve una diagnosi di Alzheimer viene automaticamente escluso da percorsi di cura attivi, come se la malattia lo rendesse un paziente di serie B. Questo atteggiamento è inaccettabile e lesivo della dignità umana.
Il futuro della cura dell’Alzheimer passa attraverso un approccio personalizzato e relazionale. Ogni paziente è unico, così come lo è il percorso della malattia. Non esistono soluzioni valide per tutti: esistono relazioni da costruire, alleanze da formare, percorsi da modulare con flessibilità e umanità.
In questo scenario, la ricerca scientifica è fondamentale, ma lo è anche la capacità di ascolto. Lo sono la formazione degli operatori, il supporto ai familiari, la costruzione di comunità capaci di accogliere, comprendere e includere.
Il motto del geriatra Orazio Zanetti, "fino alla morte accompagnare la vita", sintetizza con efficacia l’approccio che dovrebbe guidare chi si prende cura delle persone con Alzheimer. Un approccio fondato su rispetto, dialogo, responsabilità e condivisione.
In tutte le realtà Fatebenefratelli questo significa lavorare ogni giorno per garantire non solo cure adeguate, ma anche attenzione alla persona, alla sua storia, alla sua umanità.
In queste "terre di confine" della medicina e dell’esistenza, ciò che conta davvero è rimanere presenti. Continuare a curare, ad ascoltare, ad accompagnare. Perché, anche quando la memoria vacilla, ogni persona merita di essere riconosciuta, rispettata, amata.
Articolo tratto dalla rivista Fatebenefratelli aprile - giugno 2025
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