In uno scenario estremamente complesso, come quello della Ricerca per la cura della malattia di Alzheimer, l’obiettivo primario è impegnarsi ogni giorno in nuove sfide, puntando al futuro, moltiplicando così le possibilità di successo e trattamento.
I ricercatori dell'IRCCS Istituto Centro San Giovanni di Dio ci hanno raccontato dei nuovi approcci diagnostici e terapeutici messi a punto dalla Struttura bresciana: la Dott.ssa Marta Bortoletto del Laboratorio Neurofisiologia illustra innovative tecniche di neuroimmagine e il Dott. Alberto Redolfi dell'Unità Neuroinformatica ci parla della misurazione dell'ippocampo per identificare soggetti a rischio di Alzheimer.
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Il cervello è composto da cellule, i neuroni, collegati tra loro in modo da formare delle reti, o circuiti, responsabili di specifiche funzioni cognitive. Numerosi studi hanno dimostrato che l’alterazione di queste reti è alla base di numerose patologie neurologiche, come la malattia di Alzheimer (AD).
Nei pazienti con Alzheimer, infatti, si osserva principalmente il malfunzionamento della rete denominata “default mode network”. Questa rete di neuroni supporta le funzioni di memoria, ossia permette di immagazzinare nuove informazioni (memoria episodica) e di recuperare i ricordi (memoria autobiografica): la malattia di Alzheimer può inoltre colpire altri circuiti, come quello limbico ed esecutivo, in misura variabile in base alle caratteristiche cliniche dei pazienti.
Queste scoperte sono state possibili grazie alle moderne tecniche di neuroimmagine, che permettono di visualizzare il cervello con elevato dettaglio anatomico. Sfruttando le proprietà dei campi magnetici e attraverso la registrazione delle variazioni emodinamiche cerebrali, è possibile ricostruire una mappa delle reti neuronali e indagarne il livello di compromissione.
Queste osservazioni hanno aperto la strada a nuovi promettenti approcci, di cui l’IRCCS Fatebenefratelli di Brescia è capofila che, mediante la stimolazione non-invasiva delle reti colpite dall’AD, puntano a prevenire l’insorgenza dei sintomi o a rallentarne il decorso.
La stimolazione magnetica transcranica, il cui acronimo è TMS, è una metodica neurofisiologica che viene ampiamente utilizzata per la diagnosi di alcune patologie neurologiche e che ha mostrato un potenziale terapeutico in diversi disturbi neuro-psichiatrici. Si tratta di una tecnica in cui viene generato un campo magnetico, che permette di stimolare in maniera non invasiva e non dolorosa i neuroni del cervello in modo da indurre delle modulazioni transitorie della loro attività.
L’attivazione dei neuroni stimolati si diffonde poi nel cervello attraverso le reti neurali, cioè le vie di comunicazione che uniscono i neuroni e le diverse regioni del cervello: dalla misurazione di questa risposta è possibile stabilire se le reti neurali sono danneggiate, da cui ne deriva il suo impiego in ambito diagnostico.
I ricercatori dell’IRCCS Fatebenefratelli di Brescia da diversi anni stanno studiando l’utilizzo diagnostico e terapeutico della TMS nella malattia di Alzheimer con risultati incoraggianti. In uno studio condotto dal Laboratorio di Neurofisiologia e pubblicato nel 2019 è stato mostrato che le misure ottenute con la TMS in combinazione con l’elettroencefalogramma correlano con la capacità di memoria associativa in pazienti con demenza e possono distinguere diversi stadi della malattia con un’accuratezza vicina all’80%.
Sul fronte del trattamento, un primo studio pubblicato nel 2020 ha mostrato che la rTMS applicata in combinazione con un percorso di training cognitivo è in grado non soltanto di potenziare il miglioramento della memoria indotto dalla terapia cognitiva, ma anche di generalizzarsi ad altre funzioni cognitive.
La sfida aperta adesso è sviluppare protocolli che permettano di aumentare l’efficacia della TMS, personalizzando l’intervento sulla base delle caratteristiche individuali dei pazienti.
A questo scopo, sono in corso tre progetti finanziati dal Ministero della Salute, nell’ambito del Programma nazionale della ricerca sanitaria, e che vedono coinvolti il Laboratorio di Neurofisiologia e l’Unità di Neuroimmagine ed Epidemiologia Alzheimer, in collaborazione con altri centri di ricerca italiani. Il comune denominatore di questi studi è un approccio di medicina personalizzata, in cui la TMS viene guidata dallo studio del cervello del singolo paziente attraverso le neuroimmagini.
Nel nostro cervello esiste una regione chiamata ippocampo, che per la sua particolare conformazione ricorda quella di un “cavalluccio marino”, considerato come la centrale operativa di tutti i nostri ricordi.
Attraverso una piattaforma informatica avanzata, chiamata neuGRID, sviluppata all’IRCCS Fatebenefratelli di Brescia, è possibile quantificare in maniera automatica e con estrema precisione il volume di questo “cavalluccio marino” a partire da una risonanza magnetica cerebrale (MRI).
I ricercatori del laboratorio di Neuroinfomatica del Fatebenefratelli hanno identificato delle “curve di invecchiamento” (ovvero percentili) che permettono di identificare la presenza/assenza dell’atrofia ippocampale in tutti quei soggetti che si sottopongono ad una MRI volumetrica. In aggiunta, il monitoraggio della volumetria ippocampale nel tempo rappresenta anche un indicatore ottimale per valutare l’evoluzione della malattia di Alzheimer (AD).
In effetti, le curve di invecchiamento percentilare ottenute da una popolazione di controllo mostrano graficamente gli andamenti della volumetria dell’ippocampo tra i 55 e i 90 anni di età. Per misurare la volumetria della regione ippocampale, spiega il Dott. Alberto Redolfi, coordinatore del Laboratorio di Neuroinformatica, il medico può utilizzare oggi un algoritmo chiamato ADABOOST, che è in grado di fornire in tempi estremamente rapidi il volume dell’ippocampo ed il suo collocamento rispetto ai percentili.
Importante sottolineare che tutte queste informazioni sono riportate in un report scientifico inviato direttamente nella mailbox del medico specialista. Alla luce di tutto ciò, la principale sfida che stiamo iniziando a fronteggiare è quella di impegnarci in una accurata identificazione e stratificazione dei soggetti che, già nel prossimo futuro, potrebbero beneficiare di future terapie in grado di interrompere il processo neurodegenerativo alla base della malattia di Alzheimer.
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