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Trauma: la radice invisibile della psicopatologia

ANDREOSEIl trauma psicologico è una ferita invisibile, spesso taciuta, che lascia tracce profonde nella vita delle persone. Non si manifesta sempre con immagini di catastrofi, guerre o violenze esplicite: può annidarsi in esperienze molto più comuni, ma non per questo meno devastanti, come la trascuratezza emotiva, la mancanza di protezione, il sentirsi invisibili in famiglia.

«Il trauma è come una radice nascosta: non la vediamo, ma condiziona la crescita dell’intera pianta», spiega la suora e dott.ssa Sonia Andreose, medico psichiatra presso l’IRCCS Centro San Giovanni di Dio di Brescia.

Il 21 ottobre terrà un corso di formazione dedicato proprio a questo tema – Il trauma come radice invisibile della psicopatologia – ma le sue riflessioni offrono già una bussola per comprendere perché oggi il trauma sia considerato una delle chiavi di lettura più importanti della salute mentale.

Continua a leggere per saperne di più.

 

Oltre il PTSD: un fattore transdiagnostico

Per decenni il trauma è stato associato quasi esclusivamente al Disturbo Post-Traumatico da Stress (PTSD). Un disturbo “da manuale”, nato per descrivere i reduci di guerra o le vittime di catastrofi. Oggi, però, sappiamo che il trauma non si esaurisce nel PTSD. È un fattore transdiagnostico: un denominatore comune che attraversa quadri clinici molto diversi tra loro.

Depressione, ansia, disturbi alimentari, disturbi di personalità, psicosi, dipendenze, fino a patologie psicosomatiche croniche. Tutti questi disturbi possono avere una radice traumatica.

«Il trauma agisce sotto la superficie. Anche quando non c’è un ricordo cosciente, può plasmare la struttura psichica e la percezione della realtà», afferma Andreose. «Per questo oggi non possiamo più considerarlo un capitolo a parte, ma un filo che attraversa la clinica psichiatrica e psicologica

 

I traumi invisibili: dall’infanzia allo sviluppo traumatico

Non servono eventi eccezionali per segnare profondamente una persona. Le neuroscienze e la clinica ci insegnano che anche esperienze avverse infantili (Adverse Childhood Experiences, ACE) possono avere conseguenze durature sulla salute mentale e fisica.

Lo storico ACE Study ha mostrato che chi accumula più di quattro esperienze avverse ,come abusi, trascuratezza, violenza domestica, separazioni genitoriali, dipendenze in famiglia, presenta un rischio molto più alto di sviluppare depressione, dipendenze, disturbi d’ansia, malattie cardiovascolari e persino una ridotta aspettativa di vita.

«Quando il trauma è precoce e cronico, parliamo di sviluppo traumatico», chiarisce Andreose. «Il cervello cresce in un ambiente ostile e costruisce fin da subito modelli interni disfunzionali di sé, degli altri e del mondo.»

A livello biologico, questo si traduce in:

  • Amigdala iperattiva, sempre pronta a percepire minacce.
  • Corteccia prefrontale fragile, con ridotte capacità di controllo e pianificazione.
  • Ippocampo compromesso, che rende difficile integrare e contestualizzare i ricordi.

Questi circuiti alterati non determinano automaticamente una psicopatologia, ma creano una vulnerabilità di base, che può essere innescata da eventi stressanti lungo la vita.

Trauma, dissociazione e psicosi

Uno degli effetti più complessi del trauma è la dissociazione. «La dissociazione nasce come difesa estrema: spegnere la coscienza di ciò che è troppo doloroso per essere vissuto», spiega Andreose. «Ma se diventa uno stile di funzionamento abituale, frammenta l’identità e mina la continuità del sé.»

Le manifestazioni possono andare dalle amnesie alla depersonalizzazione, fino a disturbi dissociativi gravi. Ma il trauma può avere un ruolo anche nei sintomi psicotici. «Alcune allucinazioni uditive non sono altro che memorie traumatiche intrusivamente riattivate», osserva la psichiatra. «Capire questa origine cambia completamente l’approccio terapeutico: da una parte la farmacologia, dall’altra la necessità di elaborare l’esperienza.»

 

Quando il corpo ricorda

Il trauma non vive solo nella mente: si inscrive anche nel corpo. Dolori cronici, cefalee, disturbi gastrointestinali, dermatologici, insonnia, sono solo alcuni esempi di come l’organismo possa somatizzare vissuti traumatici.

«Il corpo può ricordare ciò che la mente cerca di dimenticare», dice Andreose. «Molti pazienti arrivano ai servizi sanitari con sintomi fisici persistenti, che non trovano spiegazioni organiche. Se non pensiamo al trauma, rischiamo di medicalizzare senza comprendere.»

Negli ultimi anni, le ricerche di psiconeuroendocrinoimmunologia (PNEI) hanno dimostrato che lo stress traumatico cronico altera i sistemi immunitario e ormonale, rendendo l’organismo più vulnerabile a malattie fisiche. Un motivo in più per adottare un approccio realmente integrato.

 

I campanelli d’allarme

Come riconoscere, in clinica, che dietro a un sintomo potrebbe esserci un trauma? Secondo la dott.ssa Andreose, i principali segnali sono:

  • Disregolazione emotiva: emozioni intense e instabili, incapacità di nominarle, oscillazioni tra rabbia e anestesia affettiva.
  • Sintomi dissociativi: amnesie, depersonalizzazione, derealizzazione.
  • Relazioni difficili: sfiducia verso gli altri, paura dell’abbandono, alternanza di attaccamento e rifiuto.
  • Vergogna e colpa: convinzioni pervasive di inadeguatezza e autosvalutazione.
  • Somatizzazioni: dolore cronico, disturbi del sonno, sintomi medici non spiegati.
  • Strategie disfunzionali di coping: abuso di sostanze, autolesionismo, disturbi alimentari.

«Spesso questi pazienti ricevono diagnosi multiple e trattamenti parziali, ma la vera radice rimane non riconosciuta. Senza affrontare il trauma, il rischio è quello di una depressione resistente o di cronicizzazione dei sintomi», avverte Andreose.

 

Quando la cura diventa retraumatizzazione

Un paradosso doloroso: a volte sono gli stessi servizi sanitari a riattivare i traumi dei pazienti. «Gerarchie rigide, procedure impersonali, linguaggi stigmatizzanti possono riprodurre la stessa sensazione di impotenza che la persona ha già vissuto», spiega Andreose.

L’uso delle contenzioni, se gestito senza adeguata sensibilità, può trasformarsi in un’esperienza devastante. Anche il modo in cui definiamo i pazienti pesa: “borderline” o “tossicodipendente” non sono solo etichette, ma riduzioni che rinforzano l’idea di un’identità difettosa.

«Ogni volta che un paziente si sente etichettato o non ascoltato, rischiamo di infliggere un nuovo trauma», sottolinea la psichiatra.

 

Un nuovo paradigma: la Trauma-Informed Care

Per rispondere a queste sfide, la prospettiva più promettente è quella della Trauma-Informed Care (TIC). «Non si tratta di aggiungere una tecnica, ma di cambiare il modo di concepire i servizi», chiarisce Andreose. «Vuol dire costruire contesti sicuri, capaci di ridare alla persona il senso di scelta, di collaborazione, di empowerment.»

Gli elementi chiave della TIC sono:

  • Riconoscere i segni del trauma e inserirli nell’anamnesi.
  • Stabilizzare prima di elaborare: insegnare tecniche di grounding e autoregolazione.
  • Integrare diversi approcci terapeutici: EMDR, DBT, psicoterapia sensomotoria, interventi corporei.
  • Ricostruire relazioni sicure: la terapia come esperienza di attaccamento correttivo.
  • Proteggere gli operatori: supervisioni regolari per prevenire burnout e compassion fatigue.

Terapie e prospettive cliniche

Negli ultimi anni la ricerca ha confermato l’efficacia di diversi approcci terapeutici al trauma:

  • EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing): lavora sull’elaborazione dei ricordi traumatici attraverso stimolazioni bilaterali.
  • DBT (Dialectical Behavior Therapy) adattata al trauma: insegna abilità di regolazione emotiva e di tolleranza allo stress.
  • Psicoterapia sensomotoria e body-oriented: integra corpo e mente, lavorando sul radicamento e sulla percezione corporea.
  • Approcci farmacologici: non specifici per il trauma, ma utili nella gestione dei sintomi associati (ansia, depressione, insonnia).

«Non esiste una tecnica magica. La vera sfida è costruire un percorso a fasi, che parta dalla sicurezza e arrivi all’elaborazione. Ogni persona deve sentirsi protagonista della propria cura», ribadisce Andreose.

 

Una sfida culturale e sociale

Parlare di trauma non significa solo parlare di clinica. Significa anche affrontare un tema sociale e culturale. Le esperienze avverse infantili non riguardano casi isolati: sono diffuse in tutte le società. Educazione, prevenzione, sostegno alla genitorialità e attenzione ai contesti di crescita diventano allora strumenti fondamentali di salute pubblica.

Per questo la cura del trauma non è solo un compito dei clinici, ma un impegno collettivo: scuole, comunità, istituzioni devono diventare contesti capaci di riconoscere e prevenire le ferite invisibili.

Il trauma non è una ferita del passato, ma un’eredità che può condizionare il presente. Invisibile, ma potente, è capace di modellare emozioni, pensieri, relazioni e persino la salute fisica. «Ogni sintomo, anche quello più disturbante, può essere visto come il tentativo di sopravvivere a un dolore che non ha trovato parole», ricorda la dott.ssa Andreose.

Per questo oggi la sfida non è solo terapeutica, ma culturale: costruire servizi e comunità che sappiano riconoscere e accogliere le fragilità, senza giudizio né stigmatizzazione. Nella missione dei Fatebenefratelli, questo approccio si intreccia con la cura integrale della persona: un prendersi carico che non guarda solo al sintomo, ma alla storia e alla dignità di ogni individuo.

Così, l’invisibile diventa visibile. E le radici, se curate, possono tornare a fiorire.

 

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